Le contraddizioni. In servizio civile con Roberto.
Sono trascorsi i primi mesi di servizio civile in Karamoja.
Tornare in questa terra a distanza di un anno è stato affascinante, così come ritrovare i sorrisi delle persone espatriate e locali che lavorano per Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo.
Purtroppo non ho provato quel miscuglio di stupore e smarrimento del primo viaggio in Karamoja, ma nonostante ciò, la mia presunzione nei confronti del luogo, dei karimojong e delle loro circostanze ha avuto vita breve.
Grazie al progetto a cui sto lavorando (progetto agricolo finanziato dall'Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo - AICS) ho avuto l'opportunità di incontrare alcune delle più povere comunità sperdute nella savana karimojong: è proprio qui che si respira l'odore della povertà e delle sue infinite conseguenze.
Così come le piogge in Karamoja si verificano sotto potenti scariche torrenziali e trovare una fonte d'acqua accessibile risulta difficile se non si perfora il terreno ad elevate profondità, allo stesso modo, si verificano forti contraddizioni tra il nostro modo di vivere e di pensare con quelli di questa cultura e tutto ciò ti avvolge inizialmente senza respiro: è un temporale di emozioni da cui non sai come uscirne vivo.
Trovare le risposte è faticoso, ecco perché abbiamo quindi bisogno di scavare a fondo dentro noi stessi.
In questi giorni sono con Peter, un facilitatore del progetto. Stiamo bevendo Coca Cola in macchina, in silenzio, dopo un training di qualche ora sulla gestione finanziaria all'interno delle comunità, svoltosi sotto il fresco abbraccio di una vecchia acacia. Finita la soda, abbassa il finestrino e lancia la sua bottiglia di plastica fuori dalla macchina. Scocciato gli chiedo perché l'abbia fatto. Mi risponde che la userà un bambino per metterci all'interno il latte delle sue capre.
Guardo dove fosse finita la bottiglia e nella scia di polvere intravedo 3 piccoli pastori che sbucati dal nulla sorridevano per aver ricevuto uno sporco pezzo di plastica con il tappo rosso.
Era immondizia, eppure erano felici.
Arriviamo nel villaggio di Naturumrum, per mobilizzare e avvertire i beneficiari del progetto che l'indomani saremmo ritornati per effettuare lo stesso training. Sono le due del pomeriggio, il sole brucia e il villaggio sembra vuoto. Esco dalla macchina e mi siedo all'ombra ad aspettare che qualcuno si faccia avanti. Nel frattempo il driver rompe il silenzio con il clacson per esortare i membri della comunità ad uscire dalle capanne. Arrivano prima i bambini, poi qualche donna.
"Akoro" (ho fame) mi dice una di loro con un bel sorriso, indicandosi la pancia. Io rispondo in modo scherzoso "Akoro bon" (anch'io ho fame). Dopo qualche minuto, si presenta un'altra donna del villaggio che in mano tiene dalla coda una dozzina di topi. Li porta verso la mia bocca e bisbiglia "Achimug" (mangia).
Incredulo, abbozzo un sorriso e la guardo negli occhi per capire le sue intenzioni. Mi ricordo il suo sguardo, ma non riesco ancora a capire se l'avesse fatto come un gesto di cortesia o di disprezzo e di sdegno verso di me. Verso il mondo, quello dei muzungu.
Qualche giorno dopo raggiungiamo il villaggio di Police, situato nel distretto di Napak per effettuare nuovamente il training.
Scendo dalla macchina insieme al mio project manager, Mr. Akena. È quasi mezzogiorno e il Sole sembra più alto del solito: come bradipi ci dirigiamo verso il primo albero per trovare riparo.
Dopo qualche ora, i primi membri della comunità si dirigono verso di noi, pronti ad iniziare l'incontro. Si scusano per il ritardo e per l'inospitalità del villaggio. Spiegano che è vuoto perché tutte le famiglie stanno cercando una fonte d'acqua nelle vicinanze. Ogni giorno si spostano di una decina di chilometri con le jerrican al seguito per portare acqua al villaggio. Loro non hanno un pozzo nelle vicinanze, la zona è troppa secca. Non c'è acqua e le piogge sembrano essersi scordate di loro.
Una volta arrivati tutti i membri, Mr. Akena avvia il training. Solite presentazioni formali. Chi siamo, cosa facciamo e perché siamo lì.
Dopo qualche ora, assetato e stordito sotto l'albero con una trentina di persone davanti a me, guardo il mio zaino. Dentro c'è la bottiglia di acqua naturale. Apro la cerniera e mi accorgo che tutti mi stanno fissando, nonostante Mr. Akena stia ancora parlando. Solo io so cosa c'è dentro e cosa sto per prendere. La mia secca gola sta già aspettando il primo sorso di acqua, ma in un attimo decido di richiudere la cerniera e di non alzare lo sguardo. In quell'istante, il rispetto per la condizione in cui si trovano è stata più forte della mia stessa sete.
Il training termina di lì a poco, quindi salgo in macchina e finalmente prendo la bottiglia d'acqua, bollente come i sedili, e la finisco in pochi secondi. È ora di tornare a casa, a Moroto.
Sulla via del ritorno abbasso il finestrino, con la speranza che il vento dia risposte a tutte le ennesime domande che la giornata ha voluto pormi. Così come lo è stato per quella precedente e come lo sarà per quella successiva.
E allora ti aggrappi al tramonto, ad un volto sul ciglio della strada, ad un bambino che guida le sue vacche al pascolo, ai mille aromi di ogni villaggio che confluiscono nelle narici aggrappati ad un invisibile chicco di polvere.
Senti l'aria che dal finestrino ti scompiglia i capelli, ti leviga il viso e ti fa chiudere gli occhi.
È finita la giornata. È il momento in cui pensi alla vita.